Un anno fa il lancio di The Greenest, la piattaforma svizzera di riforestazione che ha conquistato il terzo posto in Europa per numero di alberi piantumati nell’anno. Ma l’obiettivo del Swiss Institute for Disruptive Innovation (Sidi) è una vera rivoluzione verde. È infatti decollato Dronest, un rivoluzionario progetto in grado di dare una svolta decisiva al troppo lento processo di forestazione in atto nel mondo.
Stiamo parlando di un sistema che, attraverso l’impiego di nuove tecnologie già testate con successo e modelli di business open-source, permetterà di piantumare alberi su vasta scala a una velocità fino a mille volte superiore a quella odierna.
Di seguito l’intervista al direttore dell’istituto, Pietro Veragouth, pubblicata sul blog di Tiscali dedicato all‘innovazione che ha fornito i dettagli del progetto.
Sig. Veragouth, c’interessa sempre capire in che modo prendono vita le idee. Da dove nasce quella di un drone piantumatore?
L’idea in sé, in realtà, nacque alcuni mesi prima del lancio ufficiale del progetto The Greenest, quando ci rendemmo conto di quanto fossero complesse e costose le strutture organizzative dei nostri partner piantumatori. Non sapendo, tuttavia, se saremmo riusciti a fare di meglio, decidemmo di perseguire le due strade. Ora che disponiamo della tecnologia è proprio con questi partner che stiamo portando avanti l’iniziativa.
Ci può spiegare più nello specifico come è scaturita e come è stata sviluppata l’idea?
Certo, come ho avuto modo di raccontarle in una precedente intervista (confermo, risale a circa un anno fa [n.d.r.]) al Sidi non ci accontentiamo di una buona idea, ma forziamo la riflessione fino a quando non siamo convinti di aver individuato la migliore idea possibile. Quindi, dall’intuizione iniziale, che era nata grazie alla profonda esperienza che abbiamo nel campo dei droni (Pietro Veragouth è stato a capo del progetto Defidrone, un sistema per il trasporto autonomo di un defibrillatore in tutto il Canton Ticino entro quattro minuti dalla ricezione dell’allarme [n.d.r.]), attraverso tutta un’altra serie di Think Tank che abbiamo svolto con i nostri partner e molti esperti nei differenti campi, abbiamo formulato il progetto definitivo.
Ecco, ci parli del progetto nella sua globalità. In cosa consiste?
Sostanzialmente nell’impiego di droni che, lavorando in sinergia tra loro, permettono di piantumare alberi su territori molto estesi a ritmi inimmaginabili per qualuque squadra di agricoltori.
In sinergia?
Fino ad oggi abbiamo impiegato un singolo drone, frutto di tecnologie che sono state sviluppate durante un hackathon che abbiamo organizzato con l’International Space University e che abbiamo testato con successo in Madagascar. Per ridurre i costi e aumentare l’efficienza, abbiamo però deciso di sviluppare dei droni con caratteristiche specifiche che assolvono funzioni diverse e operano in sinergia.
Per esempio, il drone principale, che noi chiamiamo ape regina, e che si occupa della piantumazione, spara nel terreno delle piccole sfere che incapsulano sia il seme che i nutrienti che lo faranno germogliare. È un drone complesso e costoso e per questo deve essere sfruttato al massimo senza che gli vengano assegnati altri compiti. È qui che entrano in gioco gli altri droni, come i droni trasportatori, che hanno il solo compito di caricare nel proprio serbatoio le sfere che si trovano nel deposito più vicino e di trasportarle e trasferirle direttamente in volo nel serbatoio del drone piantumantore.
Un altro tipo di drone si occupa invece di rilevare l’area da piantumare che gli è stata assegnata determinando, grazie a un sistema AI, specie, qualità e quantità di alberi da coltivare nei singoli lotti per non alterare la biodiversità della specifica zona. Questo stesso drone sarà in seguito responsabile della verifica dell’esito della semina. Sorvolerà l’intera area a bassa quota e creerà una nuova mappa con le esatte coordinate dei punti in cui i singoli semi non sono germogliati e trasferirà i dati al drone piantumatore che provvederà a piantarli nuovamente. Stiamo depositando delle domande di brevetto relative ad aspetti sia tecnici che di metodo e purtroppo non posso aggiungere altro.
Ma perché impiegare questa tecnologia quando esistono tanti agricoltori in grado di farlo?
Per una semplice ragione aritmetica. Affinché l’azione di forestazione abbia un impatto reale sul clima, è necessario che entro il 2030, come indicato nell’ultima conferenza mondiale sul clima, vengano piantati almeno mille miliardi di alberi, e l’approccio classico, anche se potenziato al massimo, non permetterebbe di raggiungere nemmeno il due percento di questi volumi.
Si consideri inoltre che, logisticamente parlando, ci sono superfici immense che non vengono sfruttate perché difficilmente raggiungibili o inaccessibili alle squadre di agricoltori. Si rende quindi necessaria una soluzione dirompente, e la nostra ha proprio questa caratteristica. Ogni squadriglia composta da sei droni è in grado di piantumare fino a centoventimila alberi al giorno.
Anche questo è un tema che abbiamo dibattuto a lungo e la realtà è che l’effetto ottenuto con il nostro sistema produrrebbe un impatto positivo anche in questo senso. Le ragioni sono sostanzialmente due: le realtà che si occupano di forestazione nel mondo sono poche e vivono primariamente grazie a donazioni.
Questo perché la coltivazione di alberi non regge il confronto economico con la coltivazione di altre colture. Esiste però un’importante leva che potrebbe essere sfruttata, quella relativa ai crediti di carbonio, che tuttavia non viene utilizzata perché il prezzo pagato per ogni tonnellata di carbonio sequestrato è troppo e si rivela antieconomico. Questo rapporto però cambia nel momento in cui si impiegano sistemi di coltivazione più efficienti e se, come in questo caso, l’efficienza aumenta in modo esponenziale, la piantumazione di alberi su larga scala diventa in realtà molto redditizia. Il secondo motivo è che le tecnologie e i sistemi che abbiamo ideato per coltivare alberi possono essere impiegati anche per altre colture, e in questo modo l’impatto, oltre a incidere positivamente sul clima, potrà contribuire alla soluzione di un problema anche più importante.
Quale?
Non vorrei apparire arrogante o presuntuoso, ma mi sto riferendo al problema della fame nel mondo. A maggio sono stato invitato a presentare il progetto a un convegno sui problemi dell’agricoltura nel terzo e quarto mondo, dove erano presenti super esperti tra agronomi, biologi, genetisti, ecc. Al termine della mia presentazione, silenzio assoluto. Mah, si vede che è un tema poco pertinente, ho pensato. In realtà si trattava di una situazione un po’ imbarazzante perché il direttore della ricerca di una tra le più grosse società produttrice di sementi al mondo che aveva parlato prima di me, ma che io non avevo sentito perché ero in un’altra sessione, aveva illustrato un sistema simile al nostro che invece di droni impiegava delle specie di carrarmati robotizzati radiocomandati che non facevano nient’altro che depositare sul terreno sfere simili alle nostre a ritmi di 1500 sfere al giorno, sostenendo che l’investimento di soli 220.000 euro per un singolo robot, si sarebbe potuto facilmente ammortizzare in 5 anni. Il costo dei nostri droni in configurazione da 6 è inferiore a 30.000 euro. Le lascio immaginare il tenore della discussione che si è aperta subito dopo.
Prima mi parlava di un modello open-source, cosa intendeva dire?
Per affrontare un problema enorme e allo stesso tempo urgente come quello climatico sono necessari interventi drastici a livello globale e la politica, che dovrebbe esserne l’attore principale. Troppo invischiata in questioni di lobby, economiche e di potere, abbiamo capito che non è in grado di svolgere questo compito. In assenza di questo asset strategico bisogna fare di necessità virtù, ognuno con le proprie forze e le proprie expertise. Noi, che ci occupiamo di innovazione, abbiamo deciso di dare il nostro contributo nel campo che conosciamo meglio.
Ma la tecnologia da sola, lo sappiamo, non basta, e per questo ci siamo sforzati di sviluppare un vero e proprio modello di business economicamente sostenibile e vantaggioso per tutte le parti in gioco e abbiamo deciso di metterlo a disposizione di chiunque desideri implementarlo, sul principio dell’open-source.
Ci spieghi meglio
Vi faccio un esempio concreto sulla base di ciò che abbiamo già sperimentato.
Le figure in gioco per l’implementazione del progetto sono: il partner piantumatore, ovvero la realtà che conosce in profondità il proprio territorio, le proprie leggi e, ovviamente, i principi della coltivazione (nel nostro caso sono organizzazioni no profit che già si occupano di riforestazione). Un esperto in grado di fornire supporto nell’ottenimento delle certificazioni attraverso cui ricevere i crediti di carbonio (il nostro partner è Rete Clima, ma ne può essere utilizzato uno locale). Infine noi del Sidi, che forniamo la tecnologia e formiamo gli operatori.
L’ottenimento dei certificati e il periodo necessario affinché gli alberi siano abbastanza cresciuti per generare i primi crediti è piuttosto lungo, ed è quindi necessario che durante questa fase il progetto venga supportato finanziariamente.
Quindi come pensate di fare?
Qui entrano in gioco le aziende e i privati interessati a sostenere questo tipo d’iniziativa. Le aziende, ed è logico che sia così, sono disposte a investire a condizione che abbiano la certezza che gli alberi crescano e che ottengano un ritorno in termini d’immagine e posizionamento del proprio brand. Per dare questa garanzia, oltre a certificare con l’ausilio di fotografie l’avvenuta piantumazione e la conseguente crescita della foresta, abbiamo introdotto un altro elemento in grado di garantire totale trasparenza. Durante la piantumazione, ogni mille alberi, il drone inietta nel terreno un RFID contenente un NFT, in pratica un piccolissimo circuito passivo dotato di antenna contenente un codice univoco che viene trasmesso in risposta alla sollecitazione da parte di un rilevatore. Questo sistema, messo a punto all’interno del nostro Centro Competenza Blockchain, basato su protocolli di nuova generazione a emissioni zero (lo specifico perché so l’effetto che fa questa parola nel settore della sostenibilità, ma vi garantisco che l’impatto in questo caso è nullo), offre due vantaggi determinanti: permette la verifica dell’esatto status della piantagione anche da parte di terzi, e garantisce che lo stesso albero non possa essere finanziato da più di un sostenitore o sponsor.
Non solo.
Per quanto concerne il marketing, all’interno del perimetro piantumato sponsorizzato dall’azienda, è possibile inserire loghi e scritte che saranno visibili da satellite, per esempio in Google Maps, oppure tramite riprese aeree. Nulla vieta che anche un privato, inscrivendolo con una varietà di pianta con foglie di colorazione leggermente diversa, mandi un messaggio d’amore al proprio partner; cosa che ci è già stata richiesta e che sarà visibile non appena gli alberi avranno raggiunto una certa dimensione.
Avevo intenzione di farle una domanda sul green washing ma, alla luce di quanto mi ha raccontato, credo che sia superfluo.
No, e fa benissimo a parlarne, perché è una questione importantissima che drena un’infinità di risorse. Le aziende, volenti o nolenti, oggi sanno che devono integrare a livello di sistema il tema dell’impatto ecologico perché ormai sono coscienti che la domanda, soprattutto quella costituita dai giovanissimi, è molto attenta e critica su questo argomento. Se fino a qualche tempo fa il cliente si accontentava degli slogan oggi, soprattutto dopo la pandemia, che ha reso tutti più consapevoli di quanto siamo fragili, non è più così disposto a fare concessioni e si orienta verso chi dimostra più concretezza.
Concretezza significa riduzione delle emissioni e, dal momento che non è possibile azzerarle, la restante quota va compensata, per esempio, appunto, tramite la piantumazione di alberi che sequestrano CO2 dall’atmosfera.
Da quale parte si inizi non è importante, l’importante è cominciare. Se tuttavia un’azienda pretende di sostenere che sta facendo qualcosa di concreto perché ho piantato cinquecento alberi, allora sì, sta semplicemente facendo green washing, ma non creda di aver fatto una buona mossa. Mia figlia di tredici anni, che è cresciuta a pane e sostenibilità e che in auto mi fa spegnere l’aria condizionata anche se fuori ci sono quaranta gradi, non si fa certo incantare da questi messaggi, anzi!
Mi sembra di capire che lei considera le aziende un po’ il fulcro di questa transizione. È vero?
Penso che ognuno possa, anzi debba, fare la propria parte, in funzione dei mezzi di cui dispone. Se sul fronte individuale ritengo, come ho detto prima, che la scuola stia facendo un buon lavoro, sul fronte delle aziende, che sono anche le principali responsabili del problema, credo che ci sia ancora troppa latitanza, ma le più lungimiranti stanno passando all’azione.
Le aziende cominciano a rendersi conto che investendo in modo coerente nel green sono in grado di accrescere il valore del proprio brand e di conseguenza attraggono e soddisfano un numero maggiore di clienti incrementando così i profitti.
Credo che questo sia un punto di svolta e si stia innescando un circolo virtuoso generato dalle aziende stesse che, per un naturale meccanismo di competizione, vogliono dimostrare di essere migliori dei concorrenti, indipendentemente dalla loro reale sensibilità al problema.
Voi che cosa fate per fare sì che le aziende di possano dimostrare il loro impegno green?
Essendo perfettamente consci dell’importanza di questo aspetto per le aziende, cerchiamo di favorire al massimo la loro visibilità. Per esempio, per ogni realtà che supporta la nostra iniziativa, viene creata una foresta aziendale sul web che cresce col crescere degli alberi che decide mano a mano di mettere a dimora. La foresta virtuale viene veicolata in molti modi sui social ed è imperniata su un meccanismo potenzialmente virale che comprende anche il regalo di un albero ai nuovi utenti. Tra pochi giorni, nella scuola del nostro istituto www.disruption.school rilasceremo un corso online della durata di circa dieci ore che tratta di innovazione e sostenibilità indirizzato alle aziende e in particolare ai CSR. È un corso di grande valore che le aziende potranno offrire ai propri clienti, potenziali clienti e stakeholder. Il Sidi, da quasi quattro anni, dispone del proprio campus nel metaverso, all’interno del quale vengono erogati corsi e si svolgono i Think Tank. Abbiamo acquistato una grossa area che simula le distese della foresta amazzonica martoriata da incendi e disboscamento e nel mese di settembre, a tutte le aziende che possiedono una foresta ne verrà messa a disposizione una gratuitamente anche nel metaverso, accessibile con qualunque dispositivo, dal telefonino al visore VR, con tanti interessanti gadget che non voglio spoilerare.
Ah, c’è una cosa importante che dimenticavo di aggiungere. Tutte le aziende che ci hanno sostenuto in passato e tutte quelle che ci sosterranno in futuro, usufruiranno di un “buono di parità”. Questo significa che coloro che sostengono la piantumazione di un certo numero di alberi e creano, o hanno creato, la propria foresta aziendale con The Greenest, nel momento in cui sarà operativo il servizio di piantumazione via drone, beneficeranno per primi di un upgrade gratutito delle loro foreste per cui verranno piantumati alberi addizionali in ragione del nuovo prezzo fissato, che ovviamente sarà nettamente inferiore a quello attuale.
Sidi, The Greenest, Think Tank, Centri di Competenza, School of Disruption. Com’è organizzata la vostra realtà?
Il nostro è un piccolo istituto fondato in Ticino nel 2016 con meno di venti collaboratori.
Ha come missione quella di analizzare e individuare con il più largo anticipo le innovazioni e gli agenti che hanno il potenziale per sconvolgere, distruggere oppure determinare la creazione di un nuovo mercato e incidere in modo profondo sulla società.
L’obiettivo primario è quello di rendere consapevole la comunità sulle opportunità e le minacce che il cambiamento porta con sé, supportando privati, professionisti, imprese private e pubbliche in un percorso volto a mitigare questi rischi e a cogliere queste opportunità, tramite consulenze, advising e corsi. La ricerca è la colonna portante del Sidi, è lo sguardo che abbiamo sul mondo; ricerca che conduciamo mediante l’analisi dei trend, delle innovazioni, delle tecnologie e degli agenti con caratteristiche dirompenti. Negli anni abbiamo sviluppato un network importante di relazioni e collaborazioni con partner all’avanguardia nei diversi campi. Il Think Tank è il luogo (non fisico, perché si svolge prevalentemente in ambienti virtuali) in cui il Sidi esprime al massimo il suo potenziale. È il punto di convergenza tra visioni, esperienze, conoscenze, competenze, tecnologie, talenti, culture e approcci diversi. Attraverso processi di brainstorming forzati si spinge il gruppo a pensare al di fuori degli schemi, dando vita a idee e soluzioni inedite. Condivisione e contaminazione stanno all’origine del pensiero dirompente che contraddistingue questo approccio. Nel momento in cui viene identificato un nuovo trend, una tecnologia emergente o una situazione dal potenziale dirompente in ambiti a noi affini, diamo vita a un centro di competenze verticalizzato per esplorare il tema in modo approfondito, per fare informazione e disseminazione, per creare dibattito e supportare i diversi tipi di interlocutore.
Parallelamente abbiamo le business units, che sono progetti concreti che vengono inizialmente incubati all’interno del Sidi per poi diventare realtà indipendenti nel momento in cui diventano autonomi. The Greenest, per esempio, è uno di questi progetti. Stiamo trattando con alcuni finanziatori per dare vita a una fondazione no profit e per disporre delle risorse necessarie per poterlo sviluppare adeguatamente e in tempi contenuti.