Valeria Barbi si occupa da 12 anni di cambiamenti climatici e biodiversità in modo trasversale. Con una formazione in comunicazione, scienze diplomatiche e scienze naturali, ha lavorato con aziende ed enti di formazione per diffondere consapevolezza sul fatto che quella di oggi non è solo una crisi climatica ma una crisi ecologica a 360°. In un contesto simile estromettere la biodiversità dall’analisi è oltremodo pericoloso essendo questa la migliore alleata nel raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030. Oltre che il pilastro della esistenza stessa, visto che fornisce i famosi servizi ecosistemici.
Valeria Barbi collabora pertanto con istituti, università italiane ed estere, ma anche magazine per sensibilizzare sul tema e formare persone che sappiamo trasmettere questo messaggio in maniera capillare.
Ma la vera rivoluzione sarà un progetto, un vero gioiello di reportage che indagherà gli effetti delle attività umane sulla biodiversità tra l’Alaska e l’Argentina.
Per un anno Valeria Barbi attraverserà 14 paesi raccogliendo dati, buone pratiche e storie di chi sta facendo la differenza così da creare un continuum geografico, analitico e “letterario”.
Molto bella la frase di John Muir che compare sul sito web del progetto
Ci è stato raccontato che il mondo è stato creato dall’uomo.
Una presunzione non supportata dai fatti.
Quale sarà il messaggio più importante trasmesso da WANE?
WANE è un progetto che ha come obiettivo quello di accendere i riflettori sulla crisi della biodiversità. Per farlo ho scelto di usare le storie: uno strumento antico che fin dalla notte dei tempi ha permesso all’uomo di imparare, di consolare, di educare e ammonire… Sono storie di vittoria e perdita, di sconfitta e rinascita. Parlano di chi ogni giorno lotta per difendere la natura, ma anche di quelle specie che ogni giorno si vedono portare via un pezzetto del loro habitat eppure combattono e si adattano. Da tutte loro possiamo e dobbiamo imparare. Provo a smuovere empatia mostrando a chi ci segue che questo Pianeta nasconde una sorpresa dietro ogni angolo e che tutto ciò che abbiamo e facciamo, lo dobbiamo ai milioni di specie con cui condividiamo la vita sulla Terra. WANE è un esperimento narrativo ma anche uno strumento educativo che vorrei portare nelle scuole e nelle aziende. Infine, è un progetto con il quale sto raccogliendo buone pratiche che possono essere replicate in altri contesti, con gli opportuni adattamenti. E’ il mio contributo attivo a quella che spero sia una rivoluzione nelle nostre azioni e nel nostro modo di guardare alla natura. Ma anche un monito per me e per gli altri: se vuoi davvero cambiare le cose, prima di tutto devi vederle con i tuoi occhi, provare a capirle e poi raccontarle con tutta la forza e l’empatia di cui sei capace.
Come si traduce in pratica un’idea come questa?
WANE nasce da un percorso di progettazione di circa 18 mesi in cui ho mappato il territorio dei 14 paesi che attraverserò insieme a Davide Agati fotografo e responsabile logistico del progetto. La mappatura ha incluso le caratteristiche degli ecosistemi, gli impatti dell’uomo e le realtà che stanno cercando di apportare un cambiamento positivo. Poi sono passata ai contatti diretti, spesso via call o via mail. Un lavoro lungo e faticoso visto e considerato il fuso orario e la necessità di far capire agli interlocutori che non si trattava di andare a fare delle domande scomode ma di capire e imparare. Quest’ultimo punto è molto importante e delicato soprattutto quando si interagisce con comunità o contesti sensibili, magari di minoranza o in cui la tutela dell’ambiente è un’attività davvero pericolosa per cui le persone mettono spesso a rischio la loro stessa vita (penso, ad esempio, alle associazioni che si occupano di anti-bracconaggio o di mercato di specie a rischio di estinzione in Sud America). Poi è iniziata la fase di ricerca di sponsor e media partner, e la programmazione del piano di lancio e di comunicazione, fino all’organizzazione delle presentazioni e degli eventi pre-partenza, sia in presenza che online. A questo si aggiunge la pianificazione logistica: a partire dal van attrezzato fino al metodo di assorbimento delle emissioni che produciamo con il mezzo (che è già, comunque, di ultimissima generazione), passando per lo studio delle strade e dei mezzi aggiuntivi che dovremo prendere, ad esempio, per attraversare il Canale di Panama.
Cosa rende la Panamericana un territorio così peculiare?
La scelta del percorso è ricaduta sulla Panamericana per una serie di motivi. Per prima cosa, attraversa la maggior parte degli ecosistemi esistenti al mondo: dalla tundra alla foresta temperata, boreale e quella tropicale, passando per deserti, zone umide, ghiacciai, praterie… In un continuo rapporto di connessione tra Terra ed Oceano Pacifico.
Inoltre, la PanAm, come viene spesso amichevolmente chiamata, è un continuum che collega Prudhoe Bay (Alaska) a Ushuaia (Argentina), interrompendosi solo all’altezza del misterioso Darien Gap, una sottile striscia di terra che unisce Centro e Sud America. E nel suo percorso incontra culture e tradizioni antichissime da cui c’è molto da imparare. Sappiamo, infatti, che proprio le culture indigene sono quelle che rischiano di scomparire prima – anche come conseguenza della crisi ecologica – ma paradossalmente sono proprio quelle che ci possono dare delle interessanti e fondamentali chiavi di lettura, buone pratiche da imparare e replicare altrove. A questo si aggiunge che non esiste, ad oggi, una narrazione completa del mondo naturale che circonda questa strada e delle persone che lottano per difenderlo.
Infine, la Panamericana rappresenta il Sacro Graal dei viaggiatori. E’ una strada considerata “mitica” e ai fini del racconto e del coinvolgimento delle persone, è molto importante.
A che punto è il rapporto tra gli esseri umani e la natura?
Il rapporto tra uomo e natura è in continuo mutamento, guidato com’è dall’evoluzione del pensiero, delle religioni, della politica e persino della tecnologia. Negli ultimi decenni, in particolare, abbiamo assistito ad un progressivo e costante allontanamento della nostra specie dalle altre ma ora, dopo la pandemia da Covid-19, c’è stata una riscoperta della natura da parte di Homo sapiens. Resta da capire come si svilupperà questo rinnovato rapporto, se in modo positivo e conservativo nei confronti della natura, o se porterà invece, ad una nuova invasione dei pochi spazi che le sono rimasti così da plasmarla a nostra immagine e necessità.
Come evolverà?
È interessante, la ricerca da parte dell’uomo di realtà altre rispetto a quella in cui vive. Una ricerca antica e quasi ossessiva che vede il suo culmine nel metaverso. Con questo non voglio dire che la ricerca e lo sviluppo di tecnologie non siano importanti. Anzi, sono fondamentali e ci hanno garantito una qualità della vita innegabilmente migliore e per molti più anni. Gli strumenti che creiamo, le tecniche a cui diamo vita, devono però essere un supporto alla nostra esistenza e a quella della biodiversità, non un rifugio. Il Metaverso, ad esempio, è considerato un passo decisivo verso un futuro illuminante e illuminato. Io trovo aberrante e pericoloso che si stia creando un mondo artificiale in cui persone reali, che camminano su un suolo costruito da milioni di piccoli organismi che vivono e si sono evoluti su questo Pianeta, acquistano terreni virtuali in cui vivere e camminare. In questo senso siamo degli inguaribili codardi privi di ogni capacità di assumerci le nostre responsabilità: stiamo assemblando un mondo virtuale in cui scappare perché siamo incapaci di prenderci cura di quello reale. La mia idea è che se ci ostiniamo a pensare che il genio ingegneristico umano sarà in grado di rimpiazzare i meccanismi della natura, allora perderemo questa battaglia epocale che abbiamo iniziato e di cui saremo le vittime predestinate.
Qual è l’impatto dell’uomo sulla biodiversità?
L’uomo ha un impatto sulla biodiversità da quando ha mosso i primi passi sulla Terra, 300.000 anni fa. I 5 principali fattori di perdita e degrado sono quelli su cui accende i riflettori l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN): perdita di habitat, sovrasfruttamento, inquinamento, cambiamenti climatici (di origine antropica) e diffusione di specie aliene. La buona notizia è che conosciamo anche gli strumenti necessari a rallentare la perdita di biodiversità visto che ne conosciamo i fattori di perdita. In primis, ad esempio, sappiamo che la conservazione (in situ ed ex-situ) e il ripristino funzionano ma devono puntare non alla massimizzazione del numero di specie presenti in un determinato ecosistema bensì al mantenimento della capacità di garantire i servizi ecosistemici. Inoltre è importante ampliare il più possibile la percentuale di aree terrestri e marine protette. Questo significa puntare alla protezione di almeno il 50% della terra e degli oceani e all’implementazione di una strategia che sia Nature Positive. Ovviamente, in un momento storico caratterizzato da molteplici crisi concatenate e consequenziali – economica, ecologica e sanitaria – la conservazione della biodiversità ha sempre più bisogno di identificare meccanismi di finanziamento sostenibili, al di fuori del settore pubblico e del volontariato. Infine, è fondamentale che la tutela e la conservazione della biodiversità vengano concepite come una responsabilità globale che andrà a beneficio di tutti.
E in che modo è possibile porvi rimedio?
Si pensi, a tal proposito, al concetto di One Health che spiega come la salute dell’uomo e delle altre specie siano strettamente interconnesse. Credo che sia fondamentale adottare un approccio sistemico e inclusivo, capace di richiamare all’azione tutti gli stakeholder responsabili della perdita di biodiversità ma altrettanto importanti nel mettere in piedi azioni di ripristino. Azioni che dovranno essere supportate da piani di sviluppo nazionali, regionali e locali. Conservazione e tutela del capitale naturale devono essere perseguiti attraverso mezzi diversi: dalle normative agli strumenti di controllo e gestione, dalla comunicazione agli strumenti di mercato capaci di stimolare comportamenti virtuosi e rispettosi dell’ambiente attraverso incentivi finanziari, quali le tasse su prodotti o processi inquinanti, oppure attraverso la creazione di un mercato dei diritti di inquinamento.
Circa un milione di specie animali e vegetali è attualmente considerato a rischio di estinzione. Quali sono i passi in avanti compiuti dalla ricerca scientifica in tal senso?
Quello che dobbiamo fare, oggi, è puntare alla tutela di almeno metà della Terra, come proposto dall’omonimo movimento e come sostenuto anche dal grande entomologo americano, scomparso l’anno scorso, E. O. Wilson.
Va dato spazio alla natura. E’ necessario garantire l’interconnessione tra ecosistemi, tutelando in questo modo anche la fauna selvatica che, come sappiamo, è in continua diminuzione. E va promossa l’educazione e l’informazione sul ruolo fondamentale che la biodiversità ha per la nostra vita. Innanzitutto perché noi uomini siamo natura – siamo una specie animale – e poi perché la biodiversità ci garantisce i servizi ecosistemici che ci permettono di sopravvivere su questo Pianeta (acqua potabile, servizio di impollinazione…). Un ruolo importante lo ricopre la comunicazione che deve tornare ad essere non solo informativa ma promotrice di un’azione collettiva. Dobbiamo raccontare, nel giusto modo, come dietro ad ogni cosa che utilizziamo quotidianamente c’è la natura: o perché ci fornisce le materie prime per fabbricarla, o perché ci dà l’ispirazione per darle vita (mi riferisco alla biomimesi). E, certamente, va evidenziata la connessione tra perdita di biodiversità e Agenda 2030: se non tuteliamo la natura non riusciremo a raggiungere i 17 obiettivi che, già oggi, ci stanno sfuggendo di mano.
Per millenni, l’uomo ha nutrito con la convinzione di poter vivere al di fuori delle leggi della natura. Come immagina, nel futuro, un rapporto di convivenza armonica tra noi e l’ambiente?
Non sono sicura che potrà esistere davvero un rapporto di armonia tra noi e la natura. Innanzitutto perché continuiamo a parlare di noi E la natura come se fossimo un qualcosa di separato. E questa è una forma mentis difficilissima da cambiare. Inoltre, sembra essere nella natura umana il bisogno di dominio e supremazia, di ingordigia nei confronti delle risorse e di ricerca continui di altro rispetto a sé stesso e a quello che ha a disposizione. Può sembrare un’idea pessimista ma la storia ci insegna questo. La nostra unica vera speranza è che ci si renda conto che salvare la natura significa davvero salvare noi stessi. Quella contro la biodiversità è una guerra allo specchio che siamo destinati a perdere se non agiamo in fretta. Ed essendo l’uomo egoista, e a tratti un po’ codardo, forse questa visione può portarci ad agire in fretta. Un cambiamento c’è. E lo dobbiamo soprattutto al movimento attivista e ai giovani che si riversano nelle strade. Fiumi in piena a cui va data la parola e la capacità di azione. Loro sono generatori spontanei e genuini di cambiamento. E sono anche la migliore speranza per il Pianeta.
Come crede si possa investire meglio in progetti di riforestazione?
E’ una domanda complessa su cui preferisco non espormi perché non è di mia diretta competenza. In generale, mi sento di dire che i progetti di riforestazione sono molto interessanti ed importanti ma rischiano di diventare una enorme operazione di greenwashing e di lavaggio di coscienza. Ormai, moltissime aziende si nascondono dietro alla piantumazione degli alberi per ripulire il loro bilancio di sostenibilità, e spesso con l’avvallo delle istituzioni e il plauso dei mezzi di informazione. Ma non basta piantare alberi. Riforestare e afforestare sono attività fondamentali ma devono essere fatte sotto la guida di professionisti esperti e, possibilmente, avere un impatto anche dal punto di vista sociale. Apprezzo molto, a tal proposito, le iniziative che lavorano a beneficio delle comunità nei paesi non industrializzati e che, oltre a riforestare, generano un indotto economico e organizzano percorsi educativi e professionalizzanti.
Discorso a parte merita, invece, il lavoro importante che bisogna fare nelle città che possono essere interessanti luoghi di sperimentazione. I nuclei urbani sono destinati ad ospitare sempre più persone ma non va dimenticato che le città sono abitate da una ricca biodiversità che va tutelata. Vanno costruiti corridoi ecologici, vanno ampliati gli spazi verdi e, in questo, gli alberi sono fondamentali sia come mitigatori degli impatti dei cambiamenti climatici, sia per la qualità dell’aria che come barriere per i rumori.
Valeria Barbi ha citato in questa intervista tanti argomenti molto importanti per The Greenest. Per approfondirli tutti: